Abstract Heidi James, LO SPECCHIO SONORO, ed. orig. 2020, trad. dall’inglese di Valentina Dragoni, pp. 256, € 18,50, Elliot, Roma 2022 “Tenendosi ancora per mano, camminano verso un’enorme scodella appoggiata su un fianco. Non brilla, ma la madre le dice che è uno specchio. Uno specchio che cattura il suono (…) dal mare arriva un mondo intero di rumori e viene catturato dallo specchio sonoro (…) come una rete per i pesci”. Lo specchio sonoro è il quarto romanzo della scrittrice britannica e docente universitaria Heidi James, ma il primo ad essere stato tradotto in italiano. Il titolo riverbera la struttura del romanzo, se la si paragona ad un’enorme scodella che cattura i suoni e i rumori delle vite di Tamara, Claire e Ada. La narratrice onnisciente “noi” – ovvero “una folla di antenate” – dipana le storie delle protagoniste principali e strategicamente stuzzica sin da subito la curiosità del lettore con una dichiarazione sconcertante: “Oggi ucciderà sua madre”. James consegna al lettore un romanzo femminile e femminista centrato sul rapporto inscindibile che si instaura tra chi dà la vita e chi la riceve. Non è solo un vincolo affettivo: talvolta si manifesta, acquista corporeità, diventa un proseguimento nella linea di discendenza e la progenie risulta essere “un patchwork di sua madre, delle madri della madre, di tutte quelle donne e i loro bisogni, i disprezzi, le pretese, i desideri. Non è se stessa, lei è loro, è noi”. Dopo aver sciolto nodi emotivi e risolto attriti atavici, questa sorta di inconscio collettivo, che trova “buffo, parlare con un’unica voce, essere tutte d’accordo”, ordisce una trama che riprende l’immagine del patchwork. La narratrice onnisciente “noi” con metodicità accosta, quasi sempre nella stessa sequenza, i ritagli di vita di Tamara, Claire e Ada e confeziona un manufatto che ritrae la figura complessa e variegata della donna all’interno della società inglese degli ultimi due secoli. La narrazione frammentata e discontinua sballotta il lettore tra le vicissitudini, i pensieri e le emozioni delle protagoniste femminili. Al lettore viene implicitamente richiesta propensione alla ricostruzione dei fatti dopo aver individuato i particolari delle circostanze che sono casualmente disseminati nei diversi e copiosi frammenti narrativi. Nonostante la mancanza di un evidente ordine cronologico, il lettore riesce progressivamente a tracciare una linea del tempo che va dai primi decenni del XX secolo a quello in corso. Tamara, Claire e Ada sono inserite in una società che considera i figli “una benedizione” e“ essere madre è un dono, una gioia”. Questo concetto di maternità, elaborato da una cultura patriarcale, non è sempre condiviso dalle protagoniste femminili. All’età di dieci anni Tamara riceve dalla madre un avvertimento non propriamente materno: “quando hai un bambino, quando dai la vita, ti uccidi. Ricordatelo”. Ada, “una mezza-casta”, non permette al figlio adolescente di assumersi le proprie responsabilità dopo aver messo incinta una coetanea perché appartenente ad una classe sociale inferiore: “quella ragazza ha fatto una scelta. Avrebbe potuto prendere la pillola, o abortire (…) non voglio che questo bambino, questa cosa (…) sia portata qui”. Claire, dopo che “il nono le era scivolato fuori il mese scorso”, è emotivamente sopraffatta: “Paese libero un cavolo, pensa, che libertà hanno mai avuto le donne? Se non decidono tuo padre o tuo marito, lo fanno i figli e il loro infinito voglio voglio voglio. La libertà è per gli uomini e i ragazzi”. La trentenne Tamara “soffre di nervi, di una condizione nervosa”. La narratrice onnisciente sa che quel tipo di disturbo comporta l’interazione di una predisposizione genetica infatti lo ha ereditato dalla madre, dalle madri, della madre. La giovane donna decide di interrompere la trasmissione della malattia sottoponendosi alla sterilizzazione, nonostante l’invito del ginecologo a ripensarci. L’inconscio collettivo all’unisono denuncia e rende pubbliche anche questioni cruciali quali identità, razzismo, emarginazione, abusi fisici e psicologici subiti dalle protagoniste in quanto donne. La sua narrazione diventa una forma di presa di coscienza e di affermazione sociale: “Non è che le morte possono tornare, più che altro non ce ne siamo mai andate. Lei deve colmarci con tutto quello che non abbiamo mai avuto”.
Gli infiniti voglio voglio voglio che soffocano le libertà
Festa Maria
2022-01-01
Abstract
Abstract Heidi James, LO SPECCHIO SONORO, ed. orig. 2020, trad. dall’inglese di Valentina Dragoni, pp. 256, € 18,50, Elliot, Roma 2022 “Tenendosi ancora per mano, camminano verso un’enorme scodella appoggiata su un fianco. Non brilla, ma la madre le dice che è uno specchio. Uno specchio che cattura il suono (…) dal mare arriva un mondo intero di rumori e viene catturato dallo specchio sonoro (…) come una rete per i pesci”. Lo specchio sonoro è il quarto romanzo della scrittrice britannica e docente universitaria Heidi James, ma il primo ad essere stato tradotto in italiano. Il titolo riverbera la struttura del romanzo, se la si paragona ad un’enorme scodella che cattura i suoni e i rumori delle vite di Tamara, Claire e Ada. La narratrice onnisciente “noi” – ovvero “una folla di antenate” – dipana le storie delle protagoniste principali e strategicamente stuzzica sin da subito la curiosità del lettore con una dichiarazione sconcertante: “Oggi ucciderà sua madre”. James consegna al lettore un romanzo femminile e femminista centrato sul rapporto inscindibile che si instaura tra chi dà la vita e chi la riceve. Non è solo un vincolo affettivo: talvolta si manifesta, acquista corporeità, diventa un proseguimento nella linea di discendenza e la progenie risulta essere “un patchwork di sua madre, delle madri della madre, di tutte quelle donne e i loro bisogni, i disprezzi, le pretese, i desideri. Non è se stessa, lei è loro, è noi”. Dopo aver sciolto nodi emotivi e risolto attriti atavici, questa sorta di inconscio collettivo, che trova “buffo, parlare con un’unica voce, essere tutte d’accordo”, ordisce una trama che riprende l’immagine del patchwork. La narratrice onnisciente “noi” con metodicità accosta, quasi sempre nella stessa sequenza, i ritagli di vita di Tamara, Claire e Ada e confeziona un manufatto che ritrae la figura complessa e variegata della donna all’interno della società inglese degli ultimi due secoli. La narrazione frammentata e discontinua sballotta il lettore tra le vicissitudini, i pensieri e le emozioni delle protagoniste femminili. Al lettore viene implicitamente richiesta propensione alla ricostruzione dei fatti dopo aver individuato i particolari delle circostanze che sono casualmente disseminati nei diversi e copiosi frammenti narrativi. Nonostante la mancanza di un evidente ordine cronologico, il lettore riesce progressivamente a tracciare una linea del tempo che va dai primi decenni del XX secolo a quello in corso. Tamara, Claire e Ada sono inserite in una società che considera i figli “una benedizione” e“ essere madre è un dono, una gioia”. Questo concetto di maternità, elaborato da una cultura patriarcale, non è sempre condiviso dalle protagoniste femminili. All’età di dieci anni Tamara riceve dalla madre un avvertimento non propriamente materno: “quando hai un bambino, quando dai la vita, ti uccidi. Ricordatelo”. Ada, “una mezza-casta”, non permette al figlio adolescente di assumersi le proprie responsabilità dopo aver messo incinta una coetanea perché appartenente ad una classe sociale inferiore: “quella ragazza ha fatto una scelta. Avrebbe potuto prendere la pillola, o abortire (…) non voglio che questo bambino, questa cosa (…) sia portata qui”. Claire, dopo che “il nono le era scivolato fuori il mese scorso”, è emotivamente sopraffatta: “Paese libero un cavolo, pensa, che libertà hanno mai avuto le donne? Se non decidono tuo padre o tuo marito, lo fanno i figli e il loro infinito voglio voglio voglio. La libertà è per gli uomini e i ragazzi”. La trentenne Tamara “soffre di nervi, di una condizione nervosa”. La narratrice onnisciente sa che quel tipo di disturbo comporta l’interazione di una predisposizione genetica infatti lo ha ereditato dalla madre, dalle madri, della madre. La giovane donna decide di interrompere la trasmissione della malattia sottoponendosi alla sterilizzazione, nonostante l’invito del ginecologo a ripensarci. L’inconscio collettivo all’unisono denuncia e rende pubbliche anche questioni cruciali quali identità, razzismo, emarginazione, abusi fisici e psicologici subiti dalle protagoniste in quanto donne. La sua narrazione diventa una forma di presa di coscienza e di affermazione sociale: “Non è che le morte possono tornare, più che altro non ce ne siamo mai andate. Lei deve colmarci con tutto quello che non abbiamo mai avuto”.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.