Fin dalle origini, il cinema è stato pensato (e utilizzato) anche come dispositivo di mediazione e incontro tra il soggetto e le dimensioni non immediate dell’esistenza; l’immagine stessa è stata vista come luogo in cui si deposita, assieme a una traccia del reale, qualcosa di simile a un’essenza della vita altrimenti impensabile. Il cinema, dunque, come una specie di linguaggio per concettualizzare ciò che normalmente non si vede: di qui, una lunga vicenda – tra teoria e prassi – che lo inquadra essenzialmente come un dispositivo di rivelazione e scoperta di un non meglio definito (perché, nel tempo, diversamente valorizzato) al di là – un al di rispetto alle dimensioni fenomenologicamente conosciute e conoscibili del reale. Entro questo spazio di riflessione, la nozione di visione ha conseguentemente guadagnato uno statuto ulteriore, e l’immagine cinematografica – anche quando, e anzi proprio perché, traccia del reale – è stata investita di proprietà ontofaniche, di capacità di mediazione tra il soggetto e l’essenza delle cose, la loro verità o esistenza “piena”. Lo raccontano bene, tra gli altri, i percorsi di autori come Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Martin Arnold e Ken Jacobs.

Con altri occhi: la visione come dispositivo

MALAVASI, LUCA
2016-01-01

Abstract

Fin dalle origini, il cinema è stato pensato (e utilizzato) anche come dispositivo di mediazione e incontro tra il soggetto e le dimensioni non immediate dell’esistenza; l’immagine stessa è stata vista come luogo in cui si deposita, assieme a una traccia del reale, qualcosa di simile a un’essenza della vita altrimenti impensabile. Il cinema, dunque, come una specie di linguaggio per concettualizzare ciò che normalmente non si vede: di qui, una lunga vicenda – tra teoria e prassi – che lo inquadra essenzialmente come un dispositivo di rivelazione e scoperta di un non meglio definito (perché, nel tempo, diversamente valorizzato) al di là – un al di rispetto alle dimensioni fenomenologicamente conosciute e conoscibili del reale. Entro questo spazio di riflessione, la nozione di visione ha conseguentemente guadagnato uno statuto ulteriore, e l’immagine cinematografica – anche quando, e anzi proprio perché, traccia del reale – è stata investita di proprietà ontofaniche, di capacità di mediazione tra il soggetto e l’essenza delle cose, la loro verità o esistenza “piena”. Lo raccontano bene, tra gli altri, i percorsi di autori come Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Martin Arnold e Ken Jacobs.
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