Nei primi decenni del secolo scorso l’interpretazione giuridica della nozione di pericolosità sociale di cui all’art. 203 c.p. ed il concetto di “pericolosità per sé e per gli altri”, che connotava l’allora predominante paradigma interpretativo della malattia mentale risultavano sostanzialmente sovrapponibili. Dopo la metà del ‘900, grazie anche al fiorire della psicofarmacologia, la psichiatria italiana ha vissuto una trasformazione radicale rispetto ai modelli del passato, restituendo al “matto” la dignità di “malato”, e quindi che necessita cure ed assistenza in modo analogo a qualunque altro paziente “clinico”. Tale evoluzione, tuttavia, ha contribuito a creare un differente equivoco: se da un lato è certo che non esista alcun automatismo tra malattia psichica e pericolosità, dall’altro non si può negare sic et simpliciter l’esistenza del rischio da parte del sofferente psichico di commettere comportamenti illeciti. Per questi motivi, nell’ultimo trentennio, il dibattito sulla valutazione clinica della “pericolosità sociale psichiatrica” è stato molto intenso, registrando la critica, e spesso il furore e l’impotenza, dei tecnici di fronte a previsioni normative che, nonostante il passare dei decenni, non mutavano in modo sostanziale. In tale prospettiva, gli Autori presentano i risultati più interessanti delle ricerche che hanno cercato di dimostrare se sussista o meno un rapporto tra malattia mentale e crimine ed analizzano se esistano e quali possano essere gli strumenti clinico-prognostici utilizzabili nella valutazione di tale correlazione.

La valutazione psichiatrico-forense della pericolosità sociale del sofferente psichico autore di reato: nuove prospettive tra indagine clinica e sistemi attuariali

ROCCA, GABRIELE;
2012-01-01

Abstract

Nei primi decenni del secolo scorso l’interpretazione giuridica della nozione di pericolosità sociale di cui all’art. 203 c.p. ed il concetto di “pericolosità per sé e per gli altri”, che connotava l’allora predominante paradigma interpretativo della malattia mentale risultavano sostanzialmente sovrapponibili. Dopo la metà del ‘900, grazie anche al fiorire della psicofarmacologia, la psichiatria italiana ha vissuto una trasformazione radicale rispetto ai modelli del passato, restituendo al “matto” la dignità di “malato”, e quindi che necessita cure ed assistenza in modo analogo a qualunque altro paziente “clinico”. Tale evoluzione, tuttavia, ha contribuito a creare un differente equivoco: se da un lato è certo che non esista alcun automatismo tra malattia psichica e pericolosità, dall’altro non si può negare sic et simpliciter l’esistenza del rischio da parte del sofferente psichico di commettere comportamenti illeciti. Per questi motivi, nell’ultimo trentennio, il dibattito sulla valutazione clinica della “pericolosità sociale psichiatrica” è stato molto intenso, registrando la critica, e spesso il furore e l’impotenza, dei tecnici di fronte a previsioni normative che, nonostante il passare dei decenni, non mutavano in modo sostanziale. In tale prospettiva, gli Autori presentano i risultati più interessanti delle ricerche che hanno cercato di dimostrare se sussista o meno un rapporto tra malattia mentale e crimine ed analizzano se esistano e quali possano essere gli strumenti clinico-prognostici utilizzabili nella valutazione di tale correlazione.
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