L’ultimo lavoro di Silvia Albertazzi studia il connubio tra le due forme d’arte della scrittura per eccellenza, letteratura e fotografia, per analizzare la scrittura ottenuta dall’incontro, sovrapposizione e cooperazione di parola e immagine. La letteratura con le parole scandaglia l’animo umano, la fotografia “scrittura di luce”, descrive “la realtà, attraverso tecniche e metodi coscienti, scientifici”. Albertazzi introduce la fotografia dalle origini. È il “7 gennaio 1839, giorno in cui l’astronomo François Arago annunciò ufficialmente all’Académie des Sciences de Paris la scoperta di un nuovo metodo per fissare le immagini, la dagherrotipia”. Dal dagherrotipo si passa all’immagine ottenuta dallo sviluppo della pellicola fotografica, all’attuale immagine digitale. Il fondatore del romanticismo inglese, Samuel Taylor Coleridge “frequentò lezioni di chimica generale al Royal Institute” e dopo aver discusso con un amico, pioniere della fotografia inglese, gli esperimenti studiati, “riconsiderò i propri concetti di rappresentazione, visione, tempo e spazio in relazione alla percezione della distanza, traducendo poi in poesia, nella scelta di metafore che spesso suggeriscono l’esitazione e l’inadeguatezza del linguaggio di fronte alla descrizione naturale, il desiderio latente di fotografia comune a tanti letterati romantici”. La fotografia diviene il mezzo per riprodurre il reale con la massima esattezza oltre a essere “la prova dell’esistenza della realtà”. Il vittoriano iniziatore del romanzo sociale, Charles Dickens, trasporta nella scrittura la sua passione per la fotografia: la precisione, la minuziosità dei particolari nella sua narrazione sono simili a quelli presenti nell’immagine fotografica. La ricerca di identità, del senso di appartenenza e di continuità trovano un punto fermo nella fotografia, che diviene “la prova di esserci, esserci stati e, forse, continuare a esistere”. Nel modernismo del primo Novecento la frammentarietà della fotografia permette allo scrittore di “sceglie(re) di inquadrare l’attimo, estetizzandolo”. L’isolamento dell’istante dalla continuità temporale è presente ad esempio in alcune opere di James Joyce e Virginia Woolf, “autori che sembrano lontanissimi dalla fissità della fotografia” anche se nella loro scrittura “appaiono chiari segnali di un influsso, magari inconscio, della visione fotografica”. La macchina fotografica, soprattutto ai suoi esordi, è stata associata a uno “strumento magico per antonomasia, evocatore di spiriti e creatore di illusioni”. Queste peculiarità sono presenti nello stile di scrittura del contemporaneo Salman Rushdie, e nello specifico in La terra sotto i suoi piedi (Mondadori, 1999) dove “parola e immagine si intrecciano nello sforzo congiunto di creare una nuova mitologia: la storia è raccontata dal narratore sotto specie fotografica e, al tempo stesso, la fotografia riceve motivazione dal racconto”. Wright Morris aveva dichiarato: “Le immagini visive e quelle verbali intrattengono tra loro un dialogo”. Sono diverse le pubblicazioni sul connubio parola-immagine che supportano tale pensiero. Ad esempio, in L’occhio della medusa. Fotografia e letteratura (Bollati Boringhieri, 2011) Remo Ceserani investiga l’influenza della fotografia sulle strategie narrative del XIX e XX secolo; in Poesia e fotografia (O Barra O, 2015) Yves Bonnefoy riflette sull’arte di produrre in versi, dopo l’avvento del dagherrotipo, la finitudine dell’individuo, il senso dell’esistenza, l’alienazione dell’uomo moderno.
La prova di esserci
Festa Maria
2017-01-01
Abstract
L’ultimo lavoro di Silvia Albertazzi studia il connubio tra le due forme d’arte della scrittura per eccellenza, letteratura e fotografia, per analizzare la scrittura ottenuta dall’incontro, sovrapposizione e cooperazione di parola e immagine. La letteratura con le parole scandaglia l’animo umano, la fotografia “scrittura di luce”, descrive “la realtà, attraverso tecniche e metodi coscienti, scientifici”. Albertazzi introduce la fotografia dalle origini. È il “7 gennaio 1839, giorno in cui l’astronomo François Arago annunciò ufficialmente all’Académie des Sciences de Paris la scoperta di un nuovo metodo per fissare le immagini, la dagherrotipia”. Dal dagherrotipo si passa all’immagine ottenuta dallo sviluppo della pellicola fotografica, all’attuale immagine digitale. Il fondatore del romanticismo inglese, Samuel Taylor Coleridge “frequentò lezioni di chimica generale al Royal Institute” e dopo aver discusso con un amico, pioniere della fotografia inglese, gli esperimenti studiati, “riconsiderò i propri concetti di rappresentazione, visione, tempo e spazio in relazione alla percezione della distanza, traducendo poi in poesia, nella scelta di metafore che spesso suggeriscono l’esitazione e l’inadeguatezza del linguaggio di fronte alla descrizione naturale, il desiderio latente di fotografia comune a tanti letterati romantici”. La fotografia diviene il mezzo per riprodurre il reale con la massima esattezza oltre a essere “la prova dell’esistenza della realtà”. Il vittoriano iniziatore del romanzo sociale, Charles Dickens, trasporta nella scrittura la sua passione per la fotografia: la precisione, la minuziosità dei particolari nella sua narrazione sono simili a quelli presenti nell’immagine fotografica. La ricerca di identità, del senso di appartenenza e di continuità trovano un punto fermo nella fotografia, che diviene “la prova di esserci, esserci stati e, forse, continuare a esistere”. Nel modernismo del primo Novecento la frammentarietà della fotografia permette allo scrittore di “sceglie(re) di inquadrare l’attimo, estetizzandolo”. L’isolamento dell’istante dalla continuità temporale è presente ad esempio in alcune opere di James Joyce e Virginia Woolf, “autori che sembrano lontanissimi dalla fissità della fotografia” anche se nella loro scrittura “appaiono chiari segnali di un influsso, magari inconscio, della visione fotografica”. La macchina fotografica, soprattutto ai suoi esordi, è stata associata a uno “strumento magico per antonomasia, evocatore di spiriti e creatore di illusioni”. Queste peculiarità sono presenti nello stile di scrittura del contemporaneo Salman Rushdie, e nello specifico in La terra sotto i suoi piedi (Mondadori, 1999) dove “parola e immagine si intrecciano nello sforzo congiunto di creare una nuova mitologia: la storia è raccontata dal narratore sotto specie fotografica e, al tempo stesso, la fotografia riceve motivazione dal racconto”. Wright Morris aveva dichiarato: “Le immagini visive e quelle verbali intrattengono tra loro un dialogo”. Sono diverse le pubblicazioni sul connubio parola-immagine che supportano tale pensiero. Ad esempio, in L’occhio della medusa. Fotografia e letteratura (Bollati Boringhieri, 2011) Remo Ceserani investiga l’influenza della fotografia sulle strategie narrative del XIX e XX secolo; in Poesia e fotografia (O Barra O, 2015) Yves Bonnefoy riflette sull’arte di produrre in versi, dopo l’avvento del dagherrotipo, la finitudine dell’individuo, il senso dell’esistenza, l’alienazione dell’uomo moderno.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.