The dichotomy between inside and outside is the foundation for the architectural condition: it converts it from being a simple tridimensional object to a complete spatial experience. Some architectures seem to exist more than others for their shell nature: an enclosed shell that protects and influences the feeling of being immersed in the inner self. These architectures, in being diaphragms designed to regulate the external factors, such as light and temperature, function above all as a source of emotional contagion, whether they are domestic shelters or public environments. The aesthetic validation arises from their vocation as atmospheric ecosystems, capable of keeping in perfect balance the tension between interior space and outdoor space, between built space and inner space. Two projects by the Andalusian architect Antonio Jiménez Torrecillas describe his peculiar sensibility in listening to the character of the place and his extraordinary ability to shape its atmospheric potential. The journey inside the Nazarí Wall in Albaicín Alto, the Moorish quarter of the city of Granada, (2002–2008) and the seaside house in Rota designed for a famous couple of writers, Luis García Montero and Almudena Grandes, (2012–2015) is an homage to Antonio, the master of the ineffable space.

«Però diciamo una cosa, il Partenone che cos’è d’altro se non un colonnato che regge un tetto?» (Venezia, 2011: 51). Un tetto e un recinto disegnano un interno, e quindi un esterno. Essere dentro, essere fuori. Entrare, uscire — anche solo potenzialmente, proprio come accadeva nel Partenone, il tempio antico, dimora degli dei, inaccessibile ai mortali. La dicotomia tra interno ed esterno diviene atto fondativo per la condizione architettonica, è ciò che la traghetta dall’essere mero oggetto tridimensionale a esperienza spaziale completa: è, infatti, occasione di innesco di movimenti effettivi e virtuali, comunicati per mezzo di segni, soglie, sguardi, scarti tra pubblico e privato, tra visto e nascosto, tra vanità e riserbo. «Dentro e fuori [...] E il gioco giocato appare» — sintetizzerebbe Le Corbusier (1937; 2002: 285). Ci sono architetture che sembrano esistere proprio per la loro natura di scatola: una scatola che racchiude, protegge, suggestiona il sentirsi immersi nella propria interiorità, sospesi in un dentro isolato dal fuori circondante. Nell’essere diaframmi progettati per regolare le condizioni esterne, come luce e temperatura, queste architetture funzionano soprattutto come dispositivi di contagio emotivo, sia che si tratti di spazi domestici che di ambienti pubblici. Offrono un forte senso di riparo, di rifugio intimo, di affidamento affettivo. Sono queste sensazioni a determinare il contenuto della scatola. Contribuiscono a comporre l’atmosfera del luogo, «uno degli aspetti più complessi da affrontare in architettura», essendo «quel pezzo di aria che rimane quando si tagliano via le pareti, il pavimento e il soffitto» (Jiménez Torrecillas, 2011: 16’:10”). Ciò che davvero conta è l’esperienza liminare di trasporto emotivo, che si vive in una spazialità interiore dai confini labili, che non è mai pienamente né un fuori né un dentro, e che tiene in equilibrio quella dimensione che Bruno Zevi ha chiamato «lo spazio puro dell’architettura» (1948). L’intervento dell’architetto Antonio Jiménez Torrecillas sulla Muralla Nazarí de San Miguel Alto (2002-06) è un perfetto esempio della condizione di architettura come dispositivo atmosferico. Incastonato sulla collina bianca dell’Alto Albaicín di Granada, da cui contempla il complesso monumentale dell’Alhambra, il progetto ricostruisce una porzione di muraglia nazarí del XIV secolo, distrutta per circa quaranta metri della sua lunghezza da un terremoto. Il nuovo manufatto è un parallelepipedo, realizzato con sottili lastre di granito rosa, di quattro tagli differenti, posate secondo giaciture irregolari: al suo interno è stata ricavata una stretta intercapedine dove passeggiare, o sostare. Attraverso le feritoie che ricamano la maglia minerale del rivestimento murale, la luce naturale filtra e permea lo spazio; il paesaggio circostante viene assorbito, incorniciato da prospettive sempre diverse. Dentro, la scatola è vuota: è la presenza del fuori a popolarla — un reciproco dialogare con la natura e con la memoria. Per quanto sia un volume elementare, chiuso, duro, non è semplice capire dove termini l’edificio. L’Alhambra, in lontananza, arroccata sull’orizzonte, sembra appartenergli. L’esterno sfuma nell’interno, sino a sostanziarlo. In un’altra opera di Antonio Jiménez Torrecillas, al contrario, l’interno sfuma nell’esterno, lo pervade, sino a saturarlo. La Casa para Luis García Montero y Almudena Grandes (2013-15), a Rota, cittadina della provincia di Cadice affacciata sul mare, nasce da un innesto sui frammenti — naturali e non — della precedente proprietà. Il fabbricato esistente viene spogliato del suo tetto: il vecchio ‘dentro’ diventa il nuovo ‘fuori’, le stanze si trasformano in patii all’aperto, il giardino si lascia occupare dalle geometrie dell’abitare, la struttura progettata si salda alla costellazione di pini marittimi che da più di settant’anni difendono il sito da sole e vento. La tensione tra interno ed esterno è in equilibrio perfetto. Il passaggio tra dentro e fuori è continuo, instabile, mai completamente afferrabile nelle sue sfumature. Questa architettura è prima di ogni altra cosa gestione della transizione: dettagli costruttivi e materiali scelti modulano, infatti, con sapiente originalità progettuale, incessanti variazioni e contaminazioni, stemperando gli acuti spaziali in passaggi graduali e delicati. Il paper vuole essere occasione per analizzare due progetti di un autore contemporaneo, ancora poco studiato ma maestro nel «costruire lo spazio ineffabile» (Calatrava, 2018). Lavorando su raffinati equilibri tra interno ed esterno, Antonio Jiménez Torrecillas insegna a manipolare la sfuggente essenza atmosferica dell’esperienza architettonica, intesa come processo di identificazione dello spazio costruito con lo spazio interiore. A parlare non sono le parole di un testo, come spesso accade quando ci si cimentata in descrizioni fenomenografiche di architettura, bensì muri e recinti.

L'architettura bella: Due lezioni di Antonio Jiménez Torrecillas

Elisabetta Canepa
2020-01-01

Abstract

The dichotomy between inside and outside is the foundation for the architectural condition: it converts it from being a simple tridimensional object to a complete spatial experience. Some architectures seem to exist more than others for their shell nature: an enclosed shell that protects and influences the feeling of being immersed in the inner self. These architectures, in being diaphragms designed to regulate the external factors, such as light and temperature, function above all as a source of emotional contagion, whether they are domestic shelters or public environments. The aesthetic validation arises from their vocation as atmospheric ecosystems, capable of keeping in perfect balance the tension between interior space and outdoor space, between built space and inner space. Two projects by the Andalusian architect Antonio Jiménez Torrecillas describe his peculiar sensibility in listening to the character of the place and his extraordinary ability to shape its atmospheric potential. The journey inside the Nazarí Wall in Albaicín Alto, the Moorish quarter of the city of Granada, (2002–2008) and the seaside house in Rota designed for a famous couple of writers, Luis García Montero and Almudena Grandes, (2012–2015) is an homage to Antonio, the master of the ineffable space.
2020
«Però diciamo una cosa, il Partenone che cos’è d’altro se non un colonnato che regge un tetto?» (Venezia, 2011: 51). Un tetto e un recinto disegnano un interno, e quindi un esterno. Essere dentro, essere fuori. Entrare, uscire — anche solo potenzialmente, proprio come accadeva nel Partenone, il tempio antico, dimora degli dei, inaccessibile ai mortali. La dicotomia tra interno ed esterno diviene atto fondativo per la condizione architettonica, è ciò che la traghetta dall’essere mero oggetto tridimensionale a esperienza spaziale completa: è, infatti, occasione di innesco di movimenti effettivi e virtuali, comunicati per mezzo di segni, soglie, sguardi, scarti tra pubblico e privato, tra visto e nascosto, tra vanità e riserbo. «Dentro e fuori [...] E il gioco giocato appare» — sintetizzerebbe Le Corbusier (1937; 2002: 285). Ci sono architetture che sembrano esistere proprio per la loro natura di scatola: una scatola che racchiude, protegge, suggestiona il sentirsi immersi nella propria interiorità, sospesi in un dentro isolato dal fuori circondante. Nell’essere diaframmi progettati per regolare le condizioni esterne, come luce e temperatura, queste architetture funzionano soprattutto come dispositivi di contagio emotivo, sia che si tratti di spazi domestici che di ambienti pubblici. Offrono un forte senso di riparo, di rifugio intimo, di affidamento affettivo. Sono queste sensazioni a determinare il contenuto della scatola. Contribuiscono a comporre l’atmosfera del luogo, «uno degli aspetti più complessi da affrontare in architettura», essendo «quel pezzo di aria che rimane quando si tagliano via le pareti, il pavimento e il soffitto» (Jiménez Torrecillas, 2011: 16’:10”). Ciò che davvero conta è l’esperienza liminare di trasporto emotivo, che si vive in una spazialità interiore dai confini labili, che non è mai pienamente né un fuori né un dentro, e che tiene in equilibrio quella dimensione che Bruno Zevi ha chiamato «lo spazio puro dell’architettura» (1948). L’intervento dell’architetto Antonio Jiménez Torrecillas sulla Muralla Nazarí de San Miguel Alto (2002-06) è un perfetto esempio della condizione di architettura come dispositivo atmosferico. Incastonato sulla collina bianca dell’Alto Albaicín di Granada, da cui contempla il complesso monumentale dell’Alhambra, il progetto ricostruisce una porzione di muraglia nazarí del XIV secolo, distrutta per circa quaranta metri della sua lunghezza da un terremoto. Il nuovo manufatto è un parallelepipedo, realizzato con sottili lastre di granito rosa, di quattro tagli differenti, posate secondo giaciture irregolari: al suo interno è stata ricavata una stretta intercapedine dove passeggiare, o sostare. Attraverso le feritoie che ricamano la maglia minerale del rivestimento murale, la luce naturale filtra e permea lo spazio; il paesaggio circostante viene assorbito, incorniciato da prospettive sempre diverse. Dentro, la scatola è vuota: è la presenza del fuori a popolarla — un reciproco dialogare con la natura e con la memoria. Per quanto sia un volume elementare, chiuso, duro, non è semplice capire dove termini l’edificio. L’Alhambra, in lontananza, arroccata sull’orizzonte, sembra appartenergli. L’esterno sfuma nell’interno, sino a sostanziarlo. In un’altra opera di Antonio Jiménez Torrecillas, al contrario, l’interno sfuma nell’esterno, lo pervade, sino a saturarlo. La Casa para Luis García Montero y Almudena Grandes (2013-15), a Rota, cittadina della provincia di Cadice affacciata sul mare, nasce da un innesto sui frammenti — naturali e non — della precedente proprietà. Il fabbricato esistente viene spogliato del suo tetto: il vecchio ‘dentro’ diventa il nuovo ‘fuori’, le stanze si trasformano in patii all’aperto, il giardino si lascia occupare dalle geometrie dell’abitare, la struttura progettata si salda alla costellazione di pini marittimi che da più di settant’anni difendono il sito da sole e vento. La tensione tra interno ed esterno è in equilibrio perfetto. Il passaggio tra dentro e fuori è continuo, instabile, mai completamente afferrabile nelle sue sfumature. Questa architettura è prima di ogni altra cosa gestione della transizione: dettagli costruttivi e materiali scelti modulano, infatti, con sapiente originalità progettuale, incessanti variazioni e contaminazioni, stemperando gli acuti spaziali in passaggi graduali e delicati. Il paper vuole essere occasione per analizzare due progetti di un autore contemporaneo, ancora poco studiato ma maestro nel «costruire lo spazio ineffabile» (Calatrava, 2018). Lavorando su raffinati equilibri tra interno ed esterno, Antonio Jiménez Torrecillas insegna a manipolare la sfuggente essenza atmosferica dell’esperienza architettonica, intesa come processo di identificazione dello spazio costruito con lo spazio interiore. A parlare non sono le parole di un testo, come spesso accade quando ci si cimentata in descrizioni fenomenografiche di architettura, bensì muri e recinti.
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