Nel settembre del 1914 il pittore Franz Marc scriveva alla moglie che nessuno avrebbe potuto immaginare la gravità dell’orribile guerra in atto, se non vedendola con i propri occhi. La necessità di “vedere con i propri occhi” rende assai significativa l’esperienza degli artisti al fronte: molti di loro, coscritti o volontari, parteciparono al conflitto, vissero l’esperienza delle trincee, alcuni vi persero la vita, altri sopravvissero per assistere all’esito del conflitto e alle sue conseguenze. Ludwig Meidner non è, però, tra questi: egli non conobbe per esperienza diretta il dramma della trincea e l’orrore del campo di battaglia e, pertanto, le opere realizzate durante gli anni del conflitto - siano esse dipinti, disegni o prose - non hanno il significato testimoniale di quelle di artisti come Max Beckmann, Otto Dix o Willy Jaeckel; nondimeno, esse hanno un loro peculiare valore storico in quanto, con il loro carattere sempre visionario e allegorico, documentano gli effetti devastanti generati dalla guerra nell’animo e nella mente di un uomo del tempo. Di fronte alla dilagante follia e violenza della guerra e nel privato dolore per le perdite dei propri cari Meidner sviluppò, infatti, una personale religiosità che pervade non solo le opere pittoriche e grafiche ma, soprattutto, le sue “poesie in prosa” espressioniste Im Nacken das Sternemeer e Septemberschrei, composte nei 15 mesi durante i quali l’artista, dopo essere stato arruolato nella fanteria nel 1916, venne inviato a svolgere servizio come traduttore per il francese in un campo di prigionia a Cottbus-Merzdorf. In una situazione in cui dipingere era impossibile, la scrittura diventò per Meidner il mezzo espressivo più accessibile ed efficace per tradurre visioni, angosce, esperienze contingenti e ricordi, spesso sovrapponendoli gli uni agli altri e usando le parole per costruire immagini verbali in cui realtà e surrealtà si fondono come nei suoi migliori dipinti o disegni.

«Grida d’allarme di un pittore»: la Grande Guerra nelle prose di Ludwig Meidner

P. Valenti
2018-01-01

Abstract

Nel settembre del 1914 il pittore Franz Marc scriveva alla moglie che nessuno avrebbe potuto immaginare la gravità dell’orribile guerra in atto, se non vedendola con i propri occhi. La necessità di “vedere con i propri occhi” rende assai significativa l’esperienza degli artisti al fronte: molti di loro, coscritti o volontari, parteciparono al conflitto, vissero l’esperienza delle trincee, alcuni vi persero la vita, altri sopravvissero per assistere all’esito del conflitto e alle sue conseguenze. Ludwig Meidner non è, però, tra questi: egli non conobbe per esperienza diretta il dramma della trincea e l’orrore del campo di battaglia e, pertanto, le opere realizzate durante gli anni del conflitto - siano esse dipinti, disegni o prose - non hanno il significato testimoniale di quelle di artisti come Max Beckmann, Otto Dix o Willy Jaeckel; nondimeno, esse hanno un loro peculiare valore storico in quanto, con il loro carattere sempre visionario e allegorico, documentano gli effetti devastanti generati dalla guerra nell’animo e nella mente di un uomo del tempo. Di fronte alla dilagante follia e violenza della guerra e nel privato dolore per le perdite dei propri cari Meidner sviluppò, infatti, una personale religiosità che pervade non solo le opere pittoriche e grafiche ma, soprattutto, le sue “poesie in prosa” espressioniste Im Nacken das Sternemeer e Septemberschrei, composte nei 15 mesi durante i quali l’artista, dopo essere stato arruolato nella fanteria nel 1916, venne inviato a svolgere servizio come traduttore per il francese in un campo di prigionia a Cottbus-Merzdorf. In una situazione in cui dipingere era impossibile, la scrittura diventò per Meidner il mezzo espressivo più accessibile ed efficace per tradurre visioni, angosce, esperienze contingenti e ricordi, spesso sovrapponendoli gli uni agli altri e usando le parole per costruire immagini verbali in cui realtà e surrealtà si fondono come nei suoi migliori dipinti o disegni.
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