Secondo il sociologo francese Alain Ehrenberg, a partire dalle conquiste emancipatrici degli anni Settanta inizia a formarsi un nuovo tipo di individuo, “l’individuo-traiettoria”, non più schiacciato dall’obbligo di conformarsi a determinati modelli sociali, ma spronato ad agire, a creare e a proporre progetti. La sua incapacità di soddisfare appieno questa richiesta fa strada al senso di insufficienza, all’emarginazione sociale e, infine, alla depressione, «patologia di una società in cui la norma non è più fondata sulla colpa e la disciplina, bensì sulla responsabilità e l’iniziativa», a cui egli fa fronte con l’utilizzo -massiccio a partire dalla fine degli anni Ottanta- degli antidepressivi di “nuova generazione” (Prozac e simili), attraverso cui ricerca la «cancellazione della tristezza […] e [la] sua sostituzione con una condizione emozionale “ipertimica”, gaia e indifferente al dolore». Il mio proposito è connettere questa svolta sociale con quella portata avanti a livello performativo, proprio tra gli anni Ottanta e Novanta, da artisti come Ron Athey, Paul McCarthy, Matthew Barney, che assorbono l’interiorità malata e rimossa dei loro contemporanei per poi restituirgliela, alla stregua di specchi deformanti: essi rendono “mostruoso” il proprio corpo con l’utilizzo di protesi, trucchi, travestimenti e altre ibridazioni, esibiscono «tratti comuni ma sproporzionati, deformati, montati alla rovescia», come scrive Olivier Roy proprio a proposito delle caratteristiche del “mostro”, si spostano da una critica sociale conclamata e violenta, tipica delle performance degli anni Sessanta e Settanta, a una più notturna, inquietante e sottile.

I mostri postumani e lo specchio ribaltato

Matteo Valentini
2019-01-01

Abstract

Secondo il sociologo francese Alain Ehrenberg, a partire dalle conquiste emancipatrici degli anni Settanta inizia a formarsi un nuovo tipo di individuo, “l’individuo-traiettoria”, non più schiacciato dall’obbligo di conformarsi a determinati modelli sociali, ma spronato ad agire, a creare e a proporre progetti. La sua incapacità di soddisfare appieno questa richiesta fa strada al senso di insufficienza, all’emarginazione sociale e, infine, alla depressione, «patologia di una società in cui la norma non è più fondata sulla colpa e la disciplina, bensì sulla responsabilità e l’iniziativa», a cui egli fa fronte con l’utilizzo -massiccio a partire dalla fine degli anni Ottanta- degli antidepressivi di “nuova generazione” (Prozac e simili), attraverso cui ricerca la «cancellazione della tristezza […] e [la] sua sostituzione con una condizione emozionale “ipertimica”, gaia e indifferente al dolore». Il mio proposito è connettere questa svolta sociale con quella portata avanti a livello performativo, proprio tra gli anni Ottanta e Novanta, da artisti come Ron Athey, Paul McCarthy, Matthew Barney, che assorbono l’interiorità malata e rimossa dei loro contemporanei per poi restituirgliela, alla stregua di specchi deformanti: essi rendono “mostruoso” il proprio corpo con l’utilizzo di protesi, trucchi, travestimenti e altre ibridazioni, esibiscono «tratti comuni ma sproporzionati, deformati, montati alla rovescia», come scrive Olivier Roy proprio a proposito delle caratteristiche del “mostro”, si spostano da una critica sociale conclamata e violenta, tipica delle performance degli anni Sessanta e Settanta, a una più notturna, inquietante e sottile.
2019
978-88-98500-33-8
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