Il Catino in vetro smeraldino conservato nel Museo del Tesoro della cattedrale di Genova non è citato dalla più antica annalistica locale, mentre secondo Guglielmo di Tiro sarebbe stato un trofeo della conquista di Cesarea (1101), che i genovesi avrebbero acquistato credendolo di vero smeraldo, per farne un ornamento del Duomo. Una serie di fattori – l'origine, le circostanze del suo arrivo, la sua “alterità” tipologica, le qualità materiche e fabbrili – e di esigenze cultuali – la nuova devozione per l'Eucarestia, dopo l'istituzione della festa del Corpus Christi nel 1264 – motivano il passaggio a una rilettura mitografica, che alla fine del XIII secolo identifica il Catino nel piatto dell'Ultima Cena. Tale processo trova il punto più alto nella Chronica civitatis Ianuensis di Iacopo da Varazze, arcivescovo di Genova dal 1292 al 1298: è nelle sue pagine che il Catino diventa ufficialmente “Sacro”, poiché reliquia della Passione detta “Sangraal” nei libri degli “Angli”; perdipiù, esso viene ritenuto di origine non umana, ma divina, cioè di fatto assimilato agli “acheropiti” della tradizione bizantina, come il Mandylion di Edessa e altre icone. Iacopo doveva certamente essere a conoscenza di queste ultime; ma anche vasi come il Catino – da legare probabilmente alla produzione muhkam dell'Egitto fatimide – erano presenti nei tesori d'Europa, dove subivano un processo di “riestetizzazione” e di cristianizzazione. Tra queste opere “viaggianti”, la coppa muhkam in vetro turchese del Tesoro di San Marco riporta una scritta che potrebbe alludere a una sua origine divina: ciò fa pensare che Iacopo da Varazze conoscesse altri vasi simili, e che anche grazie a tale cultura visiva, più ricca di quanto sinora sospettato, abbia letto il Catino in una prospettiva più sottile rispetto alla canonica opposizione tra prodotto di natura e opera dell'uomo.

Naturalia, mirabilia e acheropita. Il Sacro Catino del Duomo di Genova tra humana arte e divina virtute nella Chronica civitatis Ianuensis di Iacopo da Varazze

AMERI, GIANLUCA
2014-01-01

Abstract

Il Catino in vetro smeraldino conservato nel Museo del Tesoro della cattedrale di Genova non è citato dalla più antica annalistica locale, mentre secondo Guglielmo di Tiro sarebbe stato un trofeo della conquista di Cesarea (1101), che i genovesi avrebbero acquistato credendolo di vero smeraldo, per farne un ornamento del Duomo. Una serie di fattori – l'origine, le circostanze del suo arrivo, la sua “alterità” tipologica, le qualità materiche e fabbrili – e di esigenze cultuali – la nuova devozione per l'Eucarestia, dopo l'istituzione della festa del Corpus Christi nel 1264 – motivano il passaggio a una rilettura mitografica, che alla fine del XIII secolo identifica il Catino nel piatto dell'Ultima Cena. Tale processo trova il punto più alto nella Chronica civitatis Ianuensis di Iacopo da Varazze, arcivescovo di Genova dal 1292 al 1298: è nelle sue pagine che il Catino diventa ufficialmente “Sacro”, poiché reliquia della Passione detta “Sangraal” nei libri degli “Angli”; perdipiù, esso viene ritenuto di origine non umana, ma divina, cioè di fatto assimilato agli “acheropiti” della tradizione bizantina, come il Mandylion di Edessa e altre icone. Iacopo doveva certamente essere a conoscenza di queste ultime; ma anche vasi come il Catino – da legare probabilmente alla produzione muhkam dell'Egitto fatimide – erano presenti nei tesori d'Europa, dove subivano un processo di “riestetizzazione” e di cristianizzazione. Tra queste opere “viaggianti”, la coppa muhkam in vetro turchese del Tesoro di San Marco riporta una scritta che potrebbe alludere a una sua origine divina: ciò fa pensare che Iacopo da Varazze conoscesse altri vasi simili, e che anche grazie a tale cultura visiva, più ricca di quanto sinora sospettato, abbia letto il Catino in una prospettiva più sottile rispetto alla canonica opposizione tra prodotto di natura e opera dell'uomo.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11567/810364
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