Nella buona società intellettuale, magia è parola impronunciabile se non come vezzo poetico o per traslato. Usata metaforicamente indica, a seconda delle circostanze, una situazione di fascinazione; una bellezza talmente intensa da non poter essere detta; un funzionamento che non si comprende; e l’insieme di procedure usate dai prestigiatori nei loro spettacoli per far balenare una “realtà altra” davanti agli occhi di spettatori increduli. Quando un’esperienza ha la medesima qualità “super-naturale”, ma è orribile, si può parlare anche, sempre in via metaforica, di stregoneria. Solo raramente il vocabolo è usato nel suo senso storico e antropologico, che rimanda alle intenzionalità non umane, alle causalità non materiali, al valore performativo della parola, all’efficacia simbolica, alla strana meccanica delle zone di confine e, più in generale, alla questione dell’incanto. Lo si può impiegare in questo senso quasi solo fra studiosi di culture e dove sia ben chiaro che si sta parlando di altri: i primitivi, i selvaggi, gli amazzonici, i contadini lucani, quelli che ancora credono a queste cose. Anche così, se non vuol perdere la faccia, chi lo usa deve rassicurare gli uditori sulla propria distanza personale, scientifica e culturale dai fenomeni che descrive, ribadire la propria intima e univoca adesione al presupposto del disincanto. Se ne deve concludere che, in quest’accezione, la magia fa parte del non-dicibile della nostra civiltà: non perché sia oggetto di segreto, o accessibile solo a pochi iniziati, ma perché cade nella zona cieca del mondo che abitiamo, di quella modernità occidentale che, con molta arroganza, riteniamo essere l’intero del reale.

Magia, incanto e immaginario.

consigliere s.
2021-01-01

Abstract

Nella buona società intellettuale, magia è parola impronunciabile se non come vezzo poetico o per traslato. Usata metaforicamente indica, a seconda delle circostanze, una situazione di fascinazione; una bellezza talmente intensa da non poter essere detta; un funzionamento che non si comprende; e l’insieme di procedure usate dai prestigiatori nei loro spettacoli per far balenare una “realtà altra” davanti agli occhi di spettatori increduli. Quando un’esperienza ha la medesima qualità “super-naturale”, ma è orribile, si può parlare anche, sempre in via metaforica, di stregoneria. Solo raramente il vocabolo è usato nel suo senso storico e antropologico, che rimanda alle intenzionalità non umane, alle causalità non materiali, al valore performativo della parola, all’efficacia simbolica, alla strana meccanica delle zone di confine e, più in generale, alla questione dell’incanto. Lo si può impiegare in questo senso quasi solo fra studiosi di culture e dove sia ben chiaro che si sta parlando di altri: i primitivi, i selvaggi, gli amazzonici, i contadini lucani, quelli che ancora credono a queste cose. Anche così, se non vuol perdere la faccia, chi lo usa deve rassicurare gli uditori sulla propria distanza personale, scientifica e culturale dai fenomeni che descrive, ribadire la propria intima e univoca adesione al presupposto del disincanto. Se ne deve concludere che, in quest’accezione, la magia fa parte del non-dicibile della nostra civiltà: non perché sia oggetto di segreto, o accessibile solo a pochi iniziati, ma perché cade nella zona cieca del mondo che abitiamo, di quella modernità occidentale che, con molta arroganza, riteniamo essere l’intero del reale.
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