Le recenti sentenze nei casi “Alan Kurdi” e “Sea Watch 3” offrono l’occasione per alcune riflessioni in merito alla corretta individuazione e interpretazione del complesso quadro giuridico applicabile alle migrazioni via mare. A tale fenomeno sono infatti applicabili norme aventi finalità fra loro molto eterogenee e appartenenti a ordinamenti diversi: dalla c.d. Convenzione SAR e dalle altre regole di diritto internazionale sulla salvaguardia della vita umana in mare, alle disposizioni di diritto interno sul controllo delle frontiere e sulla lotta all’immigrazione clandestina. L’applicazione concreta di tale complesso quadro normativo si è di recente ulteriormente complicata a causa della sempre crescente rilevanza assunta nel contesto delle operazioni di salvataggio in mare dalle c.d. ONG, le cui navi si muovono con lo scopo precipuo di soccorrere i migranti in viaggio anche prima di aver ricevuto alcuna richiesta di aiuto dalla nave che andranno a soccorrere. Nelle sentenze in commento il profilo non è stato debitamente valorizzato, ma tale elemento di forte discontinuità rispetto allo scenario tradizionale con riguardo al quale è stato elaborato il regime giuridico relativo all’obbligo non solo di soccorso “orizzontale” fra navi ma anche della predisposizione da parte degli Stati delle operazioni di c.d. Search and Rescue porta invero a dubitare che gli strumenti tradizionali del diritto internazionale rappresentino la corretta disciplina giuridica per il caso di soccorsi in favore delle unità cariche di migranti effettuati da navi di ONG. La meccanica applicazione all’attività delle ONG di regole pensate per scenari ben diversi porta infatti a esiti non sempre soddisfacenti, come ad esempio quello di ritenere che la Convenzione SAR riconosca in capo al comandante di una nave che abbia salvato migranti in mare il dovere (rectius, il diritto), quando la nave a suo avviso non sia un c.d. luogo sicuro, di condurla in un porto anche contro la volontà dello Stato costiero e anche se il soccorso è avvenuto fuori dalla zona SAR di quest’ultimo. Quanto sopra rende opportuna una attenta riflessione sul fenomeno che prenda atto della necessità di ri-orientare il ruolo degli Stati a vario titolo coinvolti nelle operazioni SAR coinvolgenti persone migranti, laddove appare inaccettabile (ed erroneo alla luce delle regole applicabili) mantenere nell’ombra ruoli e responsabilità degli Stati di bandiera rispetto a fattispecie coinvolgenti persone soccorse autonomamente da navi di tale Stato al di fuori della zona SAR degli altri Stati costieri che, per motivi geografici, si trovano in prima linea nel gestire i flussi migratori via mare.

Migrazioni, SAR, ruolo e responsabilità delle ONG, degli Stati e dei funzionari delle competenti amministrazioni nella recente giurisprudenza italiana

F. Munari
2020-01-01

Abstract

Le recenti sentenze nei casi “Alan Kurdi” e “Sea Watch 3” offrono l’occasione per alcune riflessioni in merito alla corretta individuazione e interpretazione del complesso quadro giuridico applicabile alle migrazioni via mare. A tale fenomeno sono infatti applicabili norme aventi finalità fra loro molto eterogenee e appartenenti a ordinamenti diversi: dalla c.d. Convenzione SAR e dalle altre regole di diritto internazionale sulla salvaguardia della vita umana in mare, alle disposizioni di diritto interno sul controllo delle frontiere e sulla lotta all’immigrazione clandestina. L’applicazione concreta di tale complesso quadro normativo si è di recente ulteriormente complicata a causa della sempre crescente rilevanza assunta nel contesto delle operazioni di salvataggio in mare dalle c.d. ONG, le cui navi si muovono con lo scopo precipuo di soccorrere i migranti in viaggio anche prima di aver ricevuto alcuna richiesta di aiuto dalla nave che andranno a soccorrere. Nelle sentenze in commento il profilo non è stato debitamente valorizzato, ma tale elemento di forte discontinuità rispetto allo scenario tradizionale con riguardo al quale è stato elaborato il regime giuridico relativo all’obbligo non solo di soccorso “orizzontale” fra navi ma anche della predisposizione da parte degli Stati delle operazioni di c.d. Search and Rescue porta invero a dubitare che gli strumenti tradizionali del diritto internazionale rappresentino la corretta disciplina giuridica per il caso di soccorsi in favore delle unità cariche di migranti effettuati da navi di ONG. La meccanica applicazione all’attività delle ONG di regole pensate per scenari ben diversi porta infatti a esiti non sempre soddisfacenti, come ad esempio quello di ritenere che la Convenzione SAR riconosca in capo al comandante di una nave che abbia salvato migranti in mare il dovere (rectius, il diritto), quando la nave a suo avviso non sia un c.d. luogo sicuro, di condurla in un porto anche contro la volontà dello Stato costiero e anche se il soccorso è avvenuto fuori dalla zona SAR di quest’ultimo. Quanto sopra rende opportuna una attenta riflessione sul fenomeno che prenda atto della necessità di ri-orientare il ruolo degli Stati a vario titolo coinvolti nelle operazioni SAR coinvolgenti persone migranti, laddove appare inaccettabile (ed erroneo alla luce delle regole applicabili) mantenere nell’ombra ruoli e responsabilità degli Stati di bandiera rispetto a fattispecie coinvolgenti persone soccorse autonomamente da navi di tale Stato al di fuori della zona SAR degli altri Stati costieri che, per motivi geografici, si trovano in prima linea nel gestire i flussi migratori via mare.
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